La cura della promessa


Alessandra Astorina




«Soffrono di mente coloro che,
colpiti da grave malattia,
non sentono i dolori»
Ippocrate



Leggendo questo libro sono stata colpita dal racconto delle sue origini, infatti, come sottolinea Adelaide Lupinacci nell’introduzione, «la materia e la stoffa di cui è fatto il libro è il lavoro di gruppo». Ella spiega come la necessità di elaborare il dolore, e la sofferenza da parte del singolo analista nel prendersi cura, ha naturalmente indotto alla fondazione di un gruppo.

I singoli capitoli sono incastonati in un discorso che li commenta e collega, chiamati dagli autori «intermezzi corali».

Come scrive Corrao: «Nella grande tragedia attica, il dolore del protagonista è segnalato, significato e commentato dal Coro». Egli dice a tal proposito: «In seno al piccolo gruppo analitico è possibile attivare, in modo sempre più completo ed articolato, l’esperienza di soffrire il dolore attraverso la condivisione partecipativa transpersonale, tanto da consentire di dare fondamento e significazione al concetto di koinodinia (l’esperienza del dolore di gruppo)».

Cioè solo il gruppo è in grado di accogliere e decodificare il dolore del singolo (analista o paziente) che altrimenti risulterebbe inelaborabile e pietrificante.

Nella tragedia greca, puntualmente, il Coro, che rappresenta lo spettatore, promette al protagonista di accogliere e di partecipare al suo dolore, assumendosi tale responsabilità dall’inizio alla fine.

Possiamo ipotizzare che il Coro si prenda cura di quel personaggio?

Pensiamo ad esempio a Medea e a quanto il Coro manifestasse il suo orrore per l’infanticidio, chiedendo che la mano omicida si fermasse.

Dunque il «Coro-gruppo» segue la tragedia umana mantenendo sempre, dall’inizio alla fine, la promessa di partecipazione e dunque, secondo la mia ipotesi, di cura.

Allo stesso modo possiamo pensare, sollecitati dal titolo di questa giornata, di curare la promessa dei curanti? In fondo, ogni attività di cura custodisce una promessa:


– Il medico promette al paziente di guarire i malanni del corpo.
– L’insegnante promette all’alunno di renderlo autonomo e curioso di conoscere.
– L’assistente sociale promette all’assistito di inserirlo nella società.
– Lo psicoterapeuta promette al paziente di sostenerlo ed aiutarlo nei momenti difficili.
– Lo psicoanalista di gruppo promette ai partecipanti di seguire e conoscere l’inconscio del gruppo al fine di cambiamenti profondi negli individui.
– Lo psicoanalista promette all’analizzando di imbarcarsi con lui alla scoperta dell’inconscio di entrambi.

A tal proposito mi è tornato in mente un lavoro di Riccardo Romano in cui, a mio avviso, l’autore ci mostra il controtransfert (cioè la necessaria possibilità di essere in contatto con le emozioni che ti suscita l’analizzando e utilizzare queste ultime per curare) non solo come una posizione tecnica che necessariamente l’analista deve padroneggiare e conoscere ma anche come una dimensione in continuo movimento. Egli la chiama «la doppia promessa».

L’analista non è uno spettatore del naufragio altrui ma, al contrario, si imbarca con l’analizzando, sentendo e vivendo l’angoscia e la paura del possibile affondamento.

La doppia promessa è rappresentata, come nel Coro, dal fatto che egli sarà dall’inizio alla fine imbarcato con il proprio paziente. Tale viaggio cambierà prima di tutto l’analista insieme al suo compagno di avventure.

Possiamo pensare dunque che i curanti si debbano lasciar cambiare e curare dai curati? E che come si evince dagli esempi riportati dal libro ciò è angosciante, doloroso, terrificante, paralizzante ed estremamente confondente in taluni casi?

Spesso l’analista si oppone inconsciamente a tali emozioni e sensazioni, divenendo lo spettatore che da lontano assiste al naufragio altrui. Cioè dobbiamo accettare di essere cambiati dal dolore dell’altro in un processo che è senza dubbio bidirezionale: il curato cambia il curante che a sua volta cambia il curato. La doppia promessa è mantenuta.

Ma che cosa significa la cura della promessa?

Come possiamo prenderci cura della promessa?

Secondo la mia ipotesi la promessa è custodita e curata «nel» e «dal» gruppo.



Come si evince dagli esempi clinici nel libro, gli analisti coinvolti hanno potuto elaborare i propri vissuti nell’ambito di un lavoro di gruppo che, per antonomasia, come ci suggerisce la tragedia, è lo spazio elettivo di trasformazione del dolore.

Cioè ogni coppia analitica-protagonista è stata seguita e partecipata dal Coro-gruppo dall’inizio alla fine.

Di seguito vorrei tracciare un punto che mi sembra fondamentale a partire dalla tesi psicoanalitica per cui il dolore è intrinsecamente legato al piacere:



«Chi non soffre il dolore, non riesce neanche a «soffrire» il piacere; in tali casi, dolore e frustrazione vengono equiparati. Il dolore viene sessualizzato e di conseguenza inflitto o subito, ma non sofferto» (Bion 1970).



A partire dalle parole di Bion, possiamo ipotizzare che curare la promessa dei curanti abbia a che fare anche con questo? Cioè dobbiamo riconoscere dentro noi stessi quanto spesso ci crogioliamo nel dolore senza soffrirlo.

Il «Coro-gruppo» in questo ci può aiutare riportandoci, ogni qual volta ci perdiamo, sulla via della sofferenza ma anche sulla via del piacere di far ritorno a casa.

Vorrei raccontarvi di una mia esperienza speciale. Da qualche settimana conduco dei gruppi con bambini di quarta e quinta elementare in una scuola della città. Il progetto si chiama «Aritmetica delle emozioni».

Alla conclusione di uno di questi incontri, in cui abbiamo insieme ai bimbi individuato dei punti focali, cioè:


– Le emozioni si sentono con il corpo e non solo con la mente;
– Le emozioni vanno sempre comunicate a qualcuno altrimenti son dolori: (parole dei bambini) mal di pancia, mal di testa, allontanamento, rifugio nei videogame, dolore forte al petto, silenzio...;
– Spesso le emozioni si trattengono e non si possono più dire, come quando non si riesce a far la cacca, ecc.

Una bambina mi chiede: «Maestra, e se quando abbiamo bisogno di comunicare le nostre emozioni non troviamo nessuno?». In quel momento ho pensato a me stessa, al mio gruppo, al mio “dove poter comunicare le emozioni” e subito ho potuto rispondere: «Da oggi in poi non ci sentiremo più soli, c’è il nostro gruppo, i nostri incontri ogni settimana».

A proposito della necessità del gruppo e di un metodo che possa cogliere tale bisogno «possiamo intravedere la possibilità di una inversione di percorso che riconduca come ci suggerisce Corrao, l’individuo al gruppo anziché viceversa. In tal senso Melancolia non sarebbe perdita di sé, ma bensì del gruppo e del senso della sua funzione e dei suoi riti, atti, a controllare il dolore».

Abbiamo bisogno di un metodo preciso, che possa rispondere a tale necessità? Sono convinta che la risposta risieda nel lavoro di studio e di ricerca innovativa che da oltre 35 anni Riccardo Romano compie sulla psicoanalisi di gruppo.

A partire dalle idee pionieristiche di Francesco Corrrao egli ha sviluppato e sperimentato un metodo ed un setting atto a sondare e a curare l’inconscio del gruppo e quindi degli individui. Penso al futuro e al fatto che ciò possa rappresentare una risorsa e al tempo stesso la salvezza di una società sempre più malata e sofferente, a cui noi, (i curanti) abbiamo promesso la cura. E come tutte le promesse deve essere responsabilmente mantenuta.

Vorrei concludere questa presentazione con la mia personale ed affettiva risposta corale alla giornata di oggi: «C’è sempre un "Coro-gruppo" accanto a noi, lo dobbiamo solo poter riconoscere!».